A due giorni da Pasqua, oggi un post dedicato all’arte ed all’amore. Del resto, l’arte è sempre una grande dichiarazione d’amore. E così, quando ho scoperto che la mostra “Love”, che non sono riuscita ad andare a vedere a Roma, è approdata a Milano al Museo della Permanente, non potevo assolutamente perdermela.
Milano, per il suo carattere contemporaneo e fashion, non poteva che essere la sede naturale per il prosieguo del progetto di DART – Chiostro del Bramante, curato da Danilo Eccher e prodotto eorganizzato dal Gruppo Arthemisia.
Certo, è stata allestita in una versione ridotta rispetto a quella romana, ma vale ugualmente la pena andare a vederla.
Dal dal 17 marzo al 23 luglio, le sale espositive del Museo della Permanente accolgono 39 opere di grandi nomi dell’arte contemporanea internazionale che compongono questo straordinario racconto sull’amore.
Yayoi Kusama, Tom Wesselmann, Andy Warhol, Robert Indiana, Gilbert & George, Francesco Vezzoli, Tracey Emin, Marc Quinn, Francesco Clemente, Joana Vasconcelos e molti altri sono gli artisti chiamati a raccolta da Danilo Eccher per raccontarci l’amore dal loro punto di vista, tracciando un percorso artistico fortemente emotivo.
Come sapere, sono un’inguaribile romantica attraversare le sale del Museo della Permanente tra ritratti, sculture ed icone d’amore, è stato davvero molto bello ed emozionante.
Del resto, l’amore è il motore di tutte le cose e l’arte ne è la sua più profonda rappresentazione. Da sempre gli artisti di tutto il mondo e tutte le epoche tentano di raffigurarlo nelle sue opere.
Viviamo di amore e circondati d’amore e senza di esso le nostre vite non avrebbero senso. Ed è per questo che una mostra dedicata a questo tema ha riscosso così tanto successo.
L’amore è ovunque. Anche nelle tragiche immagini di una crocifissione, nel commovente abbraccio del Sarcofago degli sposi al Museo Etrusco di Villa Giulia, nello spettrale biancore del cadavere di Cristo del Mantegna alla Pinacoteca di Brera, nella drammatica e segreta verità della Zattera di Géricault, nel dolce e silenzioso abbandono de L’isola dei morti di Böcklin, nelle carni invadenti e nei volti deformi di Freud e Bacon, o ancora, nella sconvolgente testa del figlio di Quinn realizzata con il sangue e la placenta della madre. Sono tutte profonde e disperate dichiarazioni d’amore: al valore del sacrificio come pertugio di salvezza, alla vita coniugale che sfida la transitorietà del tempo, alla fede nella resurrezione e alle gioie spirituali, alla caparbia lotta per una verità scomoda e negata, all’abbandono e al silenzio di una solitudine ricca di memorie, alla gioia per una nuova vita che attraversa il dolore per affacciarsi al mondo. In modo ancor più nitido, quando la narrazione si compie con figure serene e invitanti, l’arte si abbandona ancor di più alla sua dichiarazione d’amore. Lo fa nelle suggestive scenografie del teatro greco classico, nell’indescrivibile volto di Santa Teresa avvolto dai fluttui marmorei del Bernini, nel soffice dialogo del Quia respexit tra oboe e soprano per il Magnificat di Bach, nelle giovani e disinvolte Demoiselles di “rue d’Avignon” di Picasso, nell’equilibrio teosofico dei colori di Mondrian o nelle atmosfere di Rothko. L’arte è sempre una dichiarazione d’amore. È l’amore stesso che ha bisogno di rappresentazione, che insegue i racconti, che dà voce alle figure più inattese, è l’amore che necessita di una recita, che suggerisce figure e immagini di un vocabolario iconico acuto e sorprendente.
Appena si entra, subito ci si trova di fronte ad una delle opere più iconiche, Love di Robert Indiana un quadrato di lettere che Robert Indiana ha tracciato agli inizi degli Anni ‘60 e che da allora continua a rappresentare l’icona più forte e suggestiva di un’immagine che si fa parola, che invade lo spazio, che espone l’essenza dell’arte stessa. L’avevo già vista a New York, ma rivederla qui nella mostra ha fatto riaffiorare in me sogni, pensieri, ricordi in un turbinio di emozioni indescrivibili. Quattro lettere in due opere in due colori, simili ma diverse, con lo stesso significato: Love e Amor, dal carattere semplice usato in passato per i bigliettini d’auguri e poi diventato iconico come rappresentazione dell’amore.
Si prosegue poi lungo il percorso per giungere davanti a Smoker #3 (3-D) del 2003 di Tom Wesselmann: un’immagine volutamente stereotipata e commerciale, dettata dalla cultura di massa che impone la propria grammatica, il proprio vocabolario e che va a scardinare l’ordine sociale delle immagini attraverso un amore pop e coraggioso, che non teme di sfiorare anche la seduzione e l’erotismo.
Yayoi Kusama, arriva a Milano, con sei opere, mai esposte in Italia: Lips Floating in the Waves [TOWHC], 2005, Morning Waves [TEXHT], 2005, Woman’s After-Image [FAOWE], 2005, Arrival of Spring [QA.B.Z], 2005, Women Waiting for Spring [TZW], 2005, Signs of Spring [WQZY], 2007 che fanno parte della serie Love Forever. Dopo il grande successo dell’istallazione All the Eternal Love I Have for the Pumpkins, la famosissima artista giapponese, nominata dal Time nel 2016 come una delle 100 personalità più influenti del mondo, esporrà a Milano sei grandi dipinti. In queste opere ritroviamo gli elementi caratteristici dell’iconografia e del mondo immaginifico di Kusama, occhi, volti di profilo e altre forme più indeterminate che richiamano le strutture cellulari, spesso in combinazioni pulsanti, campeggiano sulle tele evocando paesaggi mentali ricchi di suggestioni surrealiste e psichedeliche che animano, da sempre, la prolifica e istintiva fantasia dell’artista.
Infido e paludoso è il terreno sul quale fluttuano gli acquarelli di Francesco Clemente: i suoi lavori respirano gli aromi delle spezie orientali e presentano infiniti volti, come Androgyne Selfportrait III (2005), dove sorriso e dolore convivono, dove la vita e la morte si abbracciano indissolubilmente. In queste immagini l’amore si riconosce in tutta la sua ambiguità, si riflette su una piccola barca alla deriva prima di affondare e alzare dal proprio cuore il simbolo della resa, come nell’opera Surrender (2015).
Allo stesso universo turbolento appartiene l’opera di Marc Quinn con le sue rappresentazioni vittoriose di una natura felice, colorati mazzi di fiori e quel tripudio abbagliante di luci che allontana il sospetto del male ma che lascia spiragli al biancore gelido della fine, del tempo scaduto: sono fiori recisi come in Thor in Nenga del 2009: colori bloccati dalla chimica, natura congelata, è il meraviglioso sorriso della morte che si affaccia, con arabeschi e pennacchi, in tutto il suo trionfo.
Sono immagini dell’intensa bellezza dell’amore che custodisce la propria tragedia, la gioia di un sentimento profondo che affoga nelle lacrime di un inganno. Un amore che vive nonostante tutto: due statue che possono solo baciarsi ma non abbracciarsi. Ispirata alle statue antiche prive di arti.
Ma è forse, in assoluto, l’immagine di Marilyn Monroe con One Multicoloured Marilyn (Reversal Series) del 1979-1986 a rappresentare, con più solida suggestione, il complesso ingorgo emotivo dell’amore.
Marilyn, la cui immagine è diventata la firma di un artista come Andy Warhol: non solo l’icona più riprodotta della contemporaneità, ma un sogno visionario, allucinato di bellezza e disperazione, di eleganza e povertà, di infantile dolcezza e segreta perversione. Un’intera vita contorta e contraddittoria, congelata nella santità di un volto, il silenzio di uno sguardo in cui convivono tutte le espressioni, tutti i sentimenti e tutte le immagini possibili.
Video-installazioni raccontano nel percorso espositivo differenti linguaggi sperimentati da Ragnar Kjartansson, Tracey Moffatt, da Nathalie Djurberg e Hans Berg.
L’amore è raccontato nell’ingannevole impianto teatrale di God (2007) di Ragnar Kjartansson e nelle romantiche e storiche scene dei baci cinematografici in Love (2003) di Tracey Moffatt; voci distorte di un mondo oscuro, fiori giganti di cartapesta che alludono a una bellezza inquietante, una struttura teatrale e filmica sono invece i protagonisti dell’opera The Clearing (White, yellow, blue and black) del 2015 di Nathalie Djurberg e Hans Berg.
L’arte e la scrittura raccontano indelebili frammenti di vita attraverso l’intima e luminosa grafia di Tracey Emin con My Forgotten Heart (2015); fragilità e timore si manifestano in tutta la loro evidenza nei corpi torturati e feriti delle sculture femminili di Mark Manders.
Con Francesco Vezzoli ed il suo The Eternal Kiss (2015), il linguaggio scultoreo e quello filmico si accarezzano in un dialogo sottilmente seducente: il silenzio marmoreo della statuaria romana imperiale e la cinematografia lussuosa e barocca alla Luchino Visconti si fondono nel gioco di un amore impossibile ricamato con lacrime, colto in sguardi intensi, profumato da labbra sfiorate.
E ancora un esercizio di equilibrio è quello espresso in Crystal Gaze (2007) da Ursula Mayer e l’algido involucro che avvolge le sue modelle eteree, bellissime e lontanissime, prive di respiro, manichini eleganti dai sentimenti impossibili sul vortice del peccato.
Lo stesso feticistico rapporto con la statuaria classica è quello di Vanessa Beecroft che privilegia il corpo reale delle modelle e la fotografia come in VBSS.003.MP (2006).
Altro azzardo è compiuto da Gilbert & George che in Metalepsy (2008) sfigurano i loro stessi corpi in un intreccio di immagini e in un gioco in cui è impossibile abdicare al grande sogno identitario di arte e vita.
Qui si parla di amore per la Patria in due opere simili ma diverse.
Perché l’arte è anche musica: a completare il caleidoscopico quadro di sensazioni Coração Independente Vermelho #3 (PA) [Red Independent Heart #3 (AP)], il gigantesco cuore fatto di posate di plastica rosse di Joana Vasconcelos che canta, con la voce di Amalia Rodriguez, l’incanto del fado. Si contrappone così l’armonia della musica alla cantilena della tristezza, l’immagine simbolica dell’amore alla quotidianità ripetitiva raccontata dalle posate di plastica con cui la Vasconcelos rincorre ora gli aspetti più tormentati del simbolo, ora quelli più concettuali della grammatica compositiva.
La mostra si chiude poi con un’opera nell’opera: un pannello sul quale i visitatori sono invitati a lasciare la propria testimonianza all’interno del percorso espositivo, creando un’opera d’arte nuova, che cresce giorno dopo giorno insieme alla mostra.